1 Geopoetica e geopolitica

Il termine Geopolitica, di origine tedesca, è un neologismo degli anni Trenta. Fu in quell’anno che Jacques Ancel, professore di geografia politica all’Istituto di Alti Studi Internazionali dell’Università di Parigi, lo introdusse in Francia. Lo utilizzò come titolo di un “saggio dottrinale di geografia politica”, costituito di tre grandi parti: I Metodi (“Geografia tedesca o geografia francese?”), L’Inquadramento (“La frontiera nel tempo, la frontiera nello spazio”), La Nazione (“Principio territoriale, principio psicologico?”). Da buon stilista francese, si scusa del “pedantismo”, ma non voleva che un termine così significativo fosse accaparrato dalle “mentite spoglie della scienza tedesca”. Oltre-Reno, è proprio sul concetto di Geopolitik - un’invenzione dei “professori tedeschi” - che il nazional-socialismo hitleriano stava ponendo le proprie basi, in modo grossolanamente semplicistico e propagandistico: la Zeitschrift für Geopolitik fu lanciata da Haushofer verso il 1926. Bisognava dare a questo termine, che sarebbe diventato intellettualmente preponderante e potenzialmente nefasto, maggior precisione, e altre prospettive. E bisognava, per la Francia, avanzare su questo terreno instabile. È che, fino a quel momento, la Francia era rimasta piuttosto ripiegata su se stessa, sulla propria identità. La sua scienza geografica, per quanto fosse raffinata e analitica, era interna e statica. Bisognava che, d’ora in poi, si aprisse a uno spazio esterno, dinamico, ma senza nulla perdere delle qualità rappresentate egregiamente, agli occhi di Ancel, dalla geografia umana di Vidal de La Blache, così come fu esposta, nel 1922, nei Princìpi di geografia umana.


Nella mia biblioteca, Vidal de La Blache figura da anni al fianco di Élisée Reclu e di Friederich Ratzel, la cui Politische Geogrefie uscì a Monaco nel 1897. Vi sono, nel mio lavoro, alcuni elementi di geopolitica. Uno dei miei libri recenti, Ideas of order at Cape Wrath, è un libro geopolitico (geo-politico-cuturale) che prende come esempio la Scozia. E vi sono elementi di una geopolitica di un secondo tipo, se posso dire, in tutti i miei libri, mentre percorro città e territori. Una conversazione a bordo strada, in un alloggio, un incontro inatteso, un’osservazione fatta di passaggio, possono essere più rivelatrici di un certo stato di cose che non una pagina di statistiche o un discorso.


Parliamo ora del rapporto tra geopolitica e geopoetica. La geopolitica, così come è concepita attualmente, studia il rapporto fra gli Stati sullo scacchiere mondiale, in termini di risorse, di mercati e di sicurezza. La geopoetica, invece, si concentra sul rapporto fra l’uomo (ma quale Uomo?) e la Terra. Riprende le cose dalla base. Se la geopolitica è mondialista, la geopoetica vuole essere mondificante.

 

2 Geopoetica ed ecologia

Diciamo in primo luogo, rapidamente, che l’ecologia, correttamente intesa, è inclusa nella geopoetica. È, in termini geologici, uno degli strati della geopoetica. Questo per la prospettiva verticale. Per quanto riguarda la prospettiva orizzontale, lo sviluppo della geopoetica si colloca di qualche stadio in anticipo sull’ecologia.

Vediamolo in dettaglio.

Anche se l’ecologia è ancora lungi dall’essere compresa in tutta la sua ampiezza, il termine è perlomeno divenuto familiare, e dal momento della sua comparsa, più di un secolo fa, il suo campo di significato e di applicazione si è considerevolmente ampliato.

Di fatto, allo stato attuale si possono distinguere varie ecologie: l’ecologia di base, studiata da Haeckel, ossia la relazione tra gli organismi e il loro ambiente; l’ecologia umana e sociale di cui parlava H. G. Wells (Le prospettive di Homo Sapiens) negli anni Quaranta del XX secolo; e l’ecologia di Gregory Bateson, ossia l’idea secondo la quale le più feconde manifestazioni della mente umana sono strettamente legate al grande sistema non-umano biocosmico (Verso un’ecologia della mente, Natura e pensiero), emersa negli anni 1970. Considerato, in origine, come sotto-sezione della biologia, il termine copre oggi un insieme di preoccupazioni dai contorni spesso piuttosto indistinti, mentre, sul piano fondamentale, non si esce proprio dal mitologico, dal simbolico, dall’archetipico, dal sacrale.

Quel che è certo, è che se “l’ambiente” (parola in francese poco adeguata – environnement, “circondante” -, perché lascia l’Uomo al centro) non è preservato e mantenuto in tutta la sua complessità, l’esistenza presto non avrà più basi, la cultura non avrà più fondamento, e le pratiche particolari non avranno più alcun senso.

A che scopo, per esempio, fare lo studio geo-ecologistico di una terra devastata, deteriorata, e accontentarsi di misurarne i guasti con l’aiuto di grandi sussidi tecnici?

Analogamente a quanto avviene in altre discipline, già da un po’ di tempo i geografi, primi conoscitori e descrittori della Terra, si pongono domande circa il senso della geografia, il suo orizzonte. Più semplicemente, a che serve? A fare la guerra, si è detto. Ed è vero che essa ha conosciuto un certo ritorno di considerazione sul lato della geopolitica. Ma può il geografo accontentarsi di un ruolo nello stato maggiore? Non cerca semmai un diverso rapporto con la Terra, e, chissà, di entrare lui stesso nel Grande Rapporto?

Tentativi sono stati fatti nella comunità ecologista per rispondere alla necessità, all’obiettivo che ho appena indicato. Penso, ad esempio, all’Association for the Study of Literature and Environmnent, fondata nel 1992 a Reno, nel Nevada. Vi si è anche parlato di ecopoesia. Posso essere d’accordo col suo intendimento generale, ossia che il soggetto umano costruisce il proprio essere attraverso un’interazione con l’ambiente naturale considerato come habitat. Ma questo movimento non ha molta coerenza, né molta forza. Tra i referenti dei suoi affiliati, si trovano alla rinfusa, a fianco di poeti come Wordsworth e Thoreau, (già assai diversi l’uno dall’altro), ecologisti come Aldo Leopold o Arne Naess, un po’ di darwinismo, un po’ di fenomenologia, un po’ di taoismo, di buddismo, di gandhismo, ed elementi delle tradizioni indigene.

La sola teoria-pratica che risponde interamente al desiderio di Bateson è la geopoetica. Riprendo la sua frase: “Sarò in breve pronto per le sinfonie e per gli albatros”. È per altre ragioni che ho intitolato la mia introduzione alla geopoetica L’altopiano dell’Albatros, ma il legame col lessico di Bateson è qualcosa in più di una semplice coincidenza.

 

3 Geopoetica e geografia letteraria

L’espressione “geografia letteraria” viene da Francis Moretti, professore di lingua inglese e di letteratura comparata alla Columbia University, il cui libro Atlante del romanzo europeo è uscito dapprima solo in italiano (Torno, 1997), poi in inglese (Londra, 1998), quindi in francese (Parigi, 2000). La frase finale del libro tenta di riassumere lo studio: “Un nuovo spazio che dà luogo a una nuova forma, la quale a sua volta dà luogo a un nuovo spazio. Geografia letteraria”.

Questa trialettica, “spazio, forma, spazio”, mi interessa – penso soltanto che per realizzarla appieno ci vorrebbe ben altro che una “geografia letteraria”, a mio modo di vedere troppo speciosa.

Ma procediamo per passi.

Moretti studia il romanzo, cioè la forma più sociale di letteratura. Lo studia in modo quantitativo, statistico (permettendosi solo un piccolo giudizio qualitativo qua e là, scusandosi, ad esempio, di preferire nettamente Balzac a Dickens), e in tutte le sue varietà: romanzo storico, romanzo regionale, romanzo pedagogico (Bildungsroman), romanzo sentimentale, romanzo di guerra, romanzo poliziesco.

Ogni genere si colloca nello spazio che non solo gli spetta, ma da cui, secondo la tesi, sarebbe scaturito (la sua “matrice narrativa”), e tutti sono inseriti in tre spazi socio-politico-economici globali: Stato-nazione, città, mercato, che formano il contesto delle sezioni del libro, ognuna abbondantemente accompagnata da mappe e da figure.

È così che possiamo iniziarci, in un batter d’occhio, alla piccola Inghilterra omogenea di Jane Austen (una rete di grandi proprietà), contemplare le terre alte e basse della Scozia nei romanzi di Walter Scott (“spazi selvaggi, spazi semi-civilizzati, spazi civilizzati”), seguire gli itinerari di Gil Blas nel Mediterraneo, esaminare le localizzazioni geografiche del romanzo francese fra il 1750 e il 1800 (Francia, Inghilterra, Europa, Fuori-Europa, Utopia), studiare la topografia delle funzioni narrative (spazi di matrimoni, di stupri, di inseguimenti, di punizioni, di partenze e di arrivi), meditare sulle classi sociali di Londra (criminale, povera, media, superiore) o sulla demografia della Parigi di Balzac (banchieri, medici, usurai, donnine allegre), ecc., prima di terminare il nostro periplo cronotopologico e topocronologico nei gabinetti di lettura e nelle biblioteche di prestito, per conoscere il numero rispettivo dei romanzi autoctoni e dei romanzi stranieri che vi figurano fra il 1838 e il 1861, e quindi aprire prospettive sulla diffusione dei romanzi britannici e dei romanzi francesi.

Moretti si era consacrato a questa minuziosa ricerca nei cataloghi, si era dedicato a questo sforzo considerevole di tassonomia, non solo convinto della necessità, nell’epoca contemporanea, di un Atlante storico della letteratura, ma con la speranza crescente di creare una nuova disciplina.

Certo, si era reso conto in fretta che simili Atlanti già esistevano, e ne nominerò alcuni: A Literary and Historical Atlas of Europe (Londra, 1910), Guida letteraria della Francia (Parigi, 1964), Literary Atlas and Gazeteer of the British Isles (New York, 1979), Atlas zur deutschen Literatur (Monaco, 1983), The Atlas of Literature (Londra, 1996). Ma, secondo lui, le mappe contenute in queste opere vi svolgevano solo un ruolo decorativo, mentre le sue (mappe, diagrammi) aspirano a essere parlanti, ci sono per far pensare. Anche se si mostra un po’ ingiusto nei confronti di queste opere – ho lavorato col Bartholomew del 1910 quando ero studente, e letto con interesse Literary Landscapes (1983) di David Daiches -, anche se non è al corrente di altre opere alle quali la sua obiezione non può essere applicata, non cerco un contenzioso con lui su questo piano, perché la mia critica alla sua operazione ha ben altre basi. E poi, in effetti, le mappe e le figure di Moretti mostrano e dimostrano molte cose. Seguire la cartografia dei romanzi di Dickens dal West End, dal Mayfair, verso l’East End e i moli dalla parte di Ratcliffe e di Rotherhithe, dove tutto si perde in un labirinto di viuzze e in un nulla brumoso (credo, in questo, di prolungare un po’ Moretti…) non è solo piacevole, ma rivelatore. Stessa cosa per i vicoli ciechi della vecchia Parigi e le no man’s land dei ponti sulla Senna. E se le statistiche possono essere tediose e persino oziose, non è inutile avere prove concrete della provincializzazione intellettuale e del degrado culturale dell’Inghilterra a partire dalla fine del XVIII secolo. Studiando i cataloghi delle biblioteche inglesi, Moretti ha potuto infatti constatare un’ostilità crescente verso tutto ciò che era “straniero”. Nel 1869, la grande biblioteca di prestiti Mudie, a Londra, non ha alcun libro di Voltaire e di Diderot, di Balzac o di Pushkin, e il traduttore di Zola viene incarcerato. Contemporaneamente a questa xenofobia culturale, si mette in opera, si stabilisce un canone (cioè la forma ossificata di un ambiente intellettuale, letterario, culturale impoverito), contraddistinto, nel XIX secolo e dopo, dallo storicismo, da un moralismo sentimentale, da un infantilismo: insomma, da ogni sorta di modelli ridotti a un denominatore comune situato assai in basso sulla scala di valori della mente. Virginia Woolf dichiara che Middlemarch di George Eliot è “uno dei pochi romanzi inglesi scritti da una mente adulta”, affermazione a cui Moretti stesso, che non manca di umorismo malgrado il carattere soporifero del suo compito, fa eco dicendo: “Gli adulti britannici leggono David Copperfield, ed è tutto quel che si meritano”.

Il bilancio conclusivo della cartografia socioculturale di Moretti è dunque quello di un mercato letterario, contrassegnato dal marketing dei luoghi comuni e da una standardizzazione crescente.

Ci si può dire, certo, che uno spirito minimamente lucido e critico non abbisognava di un simile “metodo di ricerca” – la carta come strumento analitico – per giungere a tale constatazione, in Gran Bretagna o altrove. Ma se ciò rende lo stato delle cose più chiaro per qualcuno, tanto meglio. E, come ho già detto, sono ben lungi dall’essere contrario all’uso di mappe e diagrammi per accompagnare un pensiero o un ragionamento.

Ho pure detto, senza rimproverarglielo (nessuno può sapere tutto – e d’altronde, a che scopo), di essere a conoscenza di certi atlanti che in apparenza Moretti ignorava. Pensavo, nello specifico, a un libro che avevo comprato all’epoca in cui ero ancora liceale, da un bouquiniste di Glasgow. Quel libro figura da allora nella mia biblioteca, e costituisce parte integrante del mio “fondo” intellettuale. Si tratta di The Personality of Britain (1932), autore Cyril Fox, direttore del Museo Nazionale del Galles. Quel libro è colmo di figure e di mappe, una delle quali mi ha particolarmente segnato: rappresenta una migrazione culturale che, partita dall’Asia Minore, passa dal Mediterraneo per arrivare agli arcipelaghi del Nord della Scozia. Vi si coglie tutt’altra concezione, un’immagine ben diversa della Gran Bretagna rispetto a quelle tradizionali e correnti. È da quel paesaggio primario, da quello spazio, che è emerso, col tempo, The Book of Kells. E lungo tutta la letteratura britannica, si trova di tanto in tanto, mi pare, un risorgimento di questo sfondo arcaico. Penso a Charles Doughty (Travels in Arabia Deserta), a John Cowper Powys (Obstinate Cymric), a Hugh MacDiarmid (Stony Limits). Ed è anche, senza dubbio, il mio caso.

Ma prima di penetrare oltre in quel paesaggio, torniamo a Moretti.

Se ha scelto di studiare il romanzo, è, come abbiamo già detto, perché si tratta della forma più immediatamente rivelatrice di uno stato della società. Ma se si vuole andare verso qualcos’altro, e vedo in Moretti i segni di tale desiderio, se ci si vuole incamminare verso un altro contesto intellettuale, magari un altro stato di società, un altro spazio culturale, ci si deve confrontare con una scrittura diversa da quella del romanzo.

Perché?

Per svariate ragioni, di cui ne enumero alcune:

a)     Come il dramma, come tutti i sistemi di comunicazione semplificanti, il romanzo è basato su una logica binaria, su un modello oppositivo, antitetico, agonista e antagonista. Il tutto situato in un contesto sovradeterminante: il mondo del denaro, del giornalismo, di ogni tipo di mondi chiusi.

b)     Si può estendere questa logica strutturale, coi suoi meccanismi, all’intero spazio. “Le città” dice Moretti “possono essere ambienti molto ‘erratici’ (very random environments), ma il romanzo protegge i suoi lettori da tale ‘erraticità’ (randomness) riducendola”. È un sistema di sicurezza, un’assicurazione, un conforto intellettuale, un cataplasma per la psiche, un impiastro per la mente. “Forma simbolica” dello stato-nazione, secondo Gellner (Nazione e nazionalismi), il romanzo è anche il rifugio, la nicchia di altre convenzioni simboliche. Moretti si domanda pure se la narratività del romanzo non sia “religione camuffata”. Altro oppio del popolo.

c)     Se il romanzo riduce la “randonneité” (neologismo che ho forgiato per accorpare randomness, “erraticità”, e randonnée, “escursione”), riduce pure la polifonia, la polisemia, la cosmologia. Lo psicanalista Francesco Orlando parla di uno “scarso tasso di figuralità”, e per Moretti i romanzi di Dickens mancano di “forza gravitazionale”.

Completamente d’accordo. Occorre andare più lontano, aprire uno spazio ancora maggiore, con altre forze e altre forme.

Come ho già sostenuto, Moretti stesso ne sente il bisogno, ne avverte il desiderio. Al termine del suo studio, considera il romanzo una forma intermedia tra il vecchio e il nuovo, “che crea un compromesso simbolico tra il mondo indifferente della scienza moderna e la topografia incantata della fiaba, tra una nuova geografia imprescindibile e un’antica matrice narrativa indimenticabile”. Constata un’assenza flagrante di “invenzione morfologica” (il critico scandinavo Gunnar Myrdal la chiamerà “sviluppo del sottosviluppo”), e si pone delle domande: “Come si cristallizza una forma narrativa?”; “Come cambia una convenzione, o meglio: cambierà mai? Non rimane invece ferma sotto mille travestimenti, fino al giorno in cui, di colpo, si disintegra?”. Per rispondere a simili domande, ci vuole non solo un altro studio, ma anche un altro metodo: “Il metodo quantitativo non serve più”. Quel che ci vorrebbe è una “analisi morfologica”. E Moretti dovrebbe considerare “l’apertura di un orizzonte”, un “cambio di paradigma”, un “programma impossibile”.

Inutile dire quanto io sia d’accordo con tali propositi. È il senso di tutto il mio lavoro, da anni in qua: l’apertura di un nuovo spazio intellettuale, la poetica di questo spazio e l’instaurazione graduale di una nuova cultura.

Questo crescente allargamento del campo di indagine è la geopoetica, ben altra cosa dalla “geografia letteraria”.

 

4 Geopoetica e geofilosofia

Prima di affrontare il rapporto fra geopoetica e geofilosofia, qualche parola sul rapporto, di ordine più generale, fra poetica e filosofia.

Domina, in ambito comune, l’idea che, se si vuole “pensare”, bisogna indirizzarsi alla filosofia, che il filosofo sarebbe il rappresentante titolato del pensiero, mentre la poetica sarebbe il luogo – “l’altro mondo” – del sentimento, della fantasia, dell’immaginario. Ritenere questo significa non saper nulla né dei lavori poetici realizzati da almeno cent’anni in qua, né di certi progressi della filosofia.

Infatti, nell’ambito della filosofia, a una critica secolare verso tutto ciò che non passa dall’essere filosofismo, filosoferia o “filosofaggio” (di gran lunga il vizio più diffuso fra i professionisti del settore), si è aggiunta, negli ambienti più avanzati, una critica alla filosofia in sé. Comincia in Nietzche, che si definisce, a un certo punto, poeta, ma “al limite della parola”, ossia completamente al di fuori dalle concezioni convenzionali. E si sviluppa in Heidegger, secondo il quale, se si vuol ricominciare a pensare, bisogna “uscire dalla filosofia”, e che preferisce dialogare con poeti quali Hölderlin o Rilke piuttosto che coi propri contemporanei filosofi. Andando indietro nel tempo, più di un francese, ignaro di Descartes se non per un cartesianesimo scolastico, rimarrà senz’altro sorpreso di sentire il nostro “uomo delle carte” dichiarare, nel testo Olympica, quanto segue: “Può parere sorprendente che i pensieri profondi si incontrino più negli scritti dei poeti che in quelli dei filosofi”.

Percorriamo quindi, adesso, il terreno filosofico-geopoetico.

Diciamo, da subito, che non mi pare granché interessante il concetto di “geofilosofia” proposto da Deleuze e Guattari nel libro Cos’è la filosofia?

Intendiamoci, in primo luogo, sulla parola “interessante”, che uso nel senso forte. Se dico di ritenere la geografia poco interessante, è in rapporto a ciò che mi stimola di più la mente, a ciò che mi sembra maggiormente necessario. La maggior parte di ciò che viene chiamato “filosofia”, “arte”, cultura”, non mi interessa affatto.

L’idea di geofilosofia è argomento di un saggio di venticinque pagine in un libro di circa duecento, nel quale vengono trattate principalmente concezioni, percezioni e attenzioni: insomma, una definizione della filosofia in rapporto all’arte e alla religione. Nella mia lettura del contesto geofilosofico, la frase-chiave attorno alla quale ruota ogni cosa, ma che, in mezzo a tutto un discorso filosofante, può passare inavvertita, è questa: “Manchiamo di un piano vero e proprio”. Dopo secoli di pensiero occidentale i concetti non mancano, ma “non sappiamo dove metterli”, essendo stati “distratti dalla trascendenza cristiana”.

Le pagine iniziali del saggio sono dedicate alla Grecia, ritenuta il luogo stesso della filosofia. Se i primi filosofi sono stranieri venuti dall’Asia (è stato Eraclito di Efeso a inventare il termine), esiliati da quel che Deleuze e Guattari vogliono vedere, salvo eccezioni di passaggio, solo sotto la forma – imperialista e imponente – del “dispotismo orientale” (di cui nessuno nega l’esistenza), è Platone che, in ambito greco aristo-democratico, insedia la filosofia. Si è anche detto, non senza ragione, che tutto ciò che da allora si è chiamato filosofia consiste solo in note a pie di pagina del testo platonico.

Secondo Nietzsche, manca, a partire da Platone, qualcosa di essenziale, “un colpo d’ala più rapido attraverso spazi maggiori” (La Nascita della filosofia).

Non insisto sull’importanza che ha avuto per me questa frase.

Dopo l’ambito greco, Deleuze e Guattari passano in rassegna gli ambiti francese, inglese e tedesco (se non prendono in considerazione l’Italia e la Spagna è perché, secondo loro, questi Paesi non hanno ancora rotto col cattolicesimo). La Francia è l’ambito della conoscenza riflessiva, del ragionamento: “I Francesi sono come proprietari terrieri la cui rendita è il cogito”. La Germania, invece, è l’ambito di un Assoluto perduto, che bisogna riconquistare. Quanto all’Inghilterra, è un suolo “instabile e mobile”: al posto del pensiero, gli Inglesi hanno abitudini, al posto dei concetti, convenzioni.

Tutto questo non è privo di interesse, e si potrebbero moltiplicare gli studi sia sui terreni che sui personaggi. Si farebbe, così, della geofilosofia. Ma si resterebbe nel mezzo. Non si abborderebbe la questione fondamentale riguardante un possibile piano di immanenza.

È questo l’argomento che Deleuze e Guattari hanno tentato di affrontare in Mille Altopiani, facendo un’analisi del capitalismo che, al limite, distrugge gli ambiti, e un’esplorazione della schizofrenia, considerata passibile di aprire un nuovo spazio mentale.

Ma per quanto si siano percorsi - freneticamente, diagrammaticamente - a bordo di una macchina da guerra concettuale, mille altopiani, non si è mai messo piede su un nuovo piano di immanenza.

Le fasi estreme del pensiero (geofilosofia compresa) di Deleuze e Guattari sono assai eloquenti da questo punto di vista.

Già in Cos’è la filosofia?, arrivati alle ultime pagine del saggio sulla geofilosofia - che non aveva fatto progredire le cose, fungendo tutt’al più da intervallo - si può leggere: “Il pensiero stesso è talvolta più vicino a un animale morente che a un uomo vivo”. E il richiamo a “una forma futura”, a “una nuova terra e a un popolo che non esiste ancora”, alla “costituzione di una terra e di un popolo che mancano, come correlativo della creazione”, è patetico.

Quanto sopra diviene ancor più chiaro in altri due libri, Critica e clinica di Deleuze e Cartografie schizoanalitiche di Guattari. In Deleuze si manifesta un profondo pathos, che il pensatore cerca di alleggerire scrivendo più che altro esercizi di “belle lettere” su “La letteratura e la vita”, su “Alice nel Paese delle meraviglie”, su “Quattro formule poetiche che potrebbero riassumere la filosofia kantiana”, eccetera. Guattari, da parte sua, indulge a un utopismo sentimentale in cui auspica “la costituzione di un ambiente di dolcezza e di devozione”, “un universo di incantesimi creatori”. Senza commento.

Per affrontare, ora, la geopoetica, risalgo, dopo i “Mille Altopiani” e la loro caduta nel baratro della banalità, sull’altopiano dell’Engadina, dove vado a ripescare Nietzsche.

È in un contesto nietzschiano che ho fatto la conoscenza di Gilles Deleuze. Penso al suo saggio “Pensiero nomade”, pubblicato negli atti del convegno “Nietzsche oggi?” (Parigi, 1973). Vi si possono leggere enunciati siffatti: “Lo scopo del marxismo e della psicanalisi, le due burocrazie fondamentali della nostra cultura, è quello di operare, bene o male, una ricodifica di quanto all’orizzonte non smette di essere codificato. Il caso di Nietzsche, al contrario, non è assolutamente questo. Il suo problema risiede altrove. Attraverso tutti i codici, del passato, del presente, del futuro, si tratta, per lui, di far passare qualcosa che non si lascia e non si lascerà mai codificare”; “Una deriva, un movimento di deriva o di ‘deterritorializzazione’”; “Lo dico in modo assai indistinto, assai confuso, poiché si tratta di un’ipotesi o di una vaga impressione circa l’originalità dei testi nietzschiani”; “Nietzsche fonda il pensiero, la scrittura, su un rapporto immediato con l’esterno. Ora, innestare il pensiero sull’esterno è quanto, letteralmente, i filosofi non hanno mai fatto, anche quando parlavano di politica, anche quando parlavano di passeggiate o di aria pura”.

All’epoca, io stesso mi preoccupavo molto di concetti quali “nomadismo” (nello specifico, intellettuale), “derivato”, e di un nuovo tipo di scrittura, di libro, di opera.

Avevo in corso una tesi sul nomadismo intellettuale (Deleuze avrebbe fatto parte della commissione d’esame), avevo in cantiere, in inglese, un libro, Travels in the Drifting Dawn (che sarebbe stato tradotto col titolo Derive), come pure un libro di saggi, scritti in francese, La figura del Fuori.

Era evidente che condividevamo un terreno.

È possibile che se Deleuze si fosse mantenuto nella sua fase “originaria” - invece di proseguire troppo sulle linee marxista e psicanalitica, lanciandosi in “capitalismo e schizofrenia” - avrebbe forse scoperto tutt’altro campo. Quel che è certo è che, se si percorrono interamente gli scritti di Deleuze (e non il solo saggio sulla “geofilosofia”), si possono trovare elementi prossimi alla geopoetica: “Il soggetto e l’oggetto forniscono un pessimo approccio al pensiero. Pensare non è né un filo teso fra un soggetto e un oggetto, né una rivoluzione dell’uno attorno all’altro. Pensare si fa semmai in rapporto al territorio e alla terra…”. È da un simile rapporto che emerge la geopoetica, la quale, lungi dall’essere non so che poesia della natura o una vaga ecologia poetica, come pretendevano alcuni, mette assieme un tipo di pensiero, un metodo-non-metodico di scrittura, una maniera di essere al mondo, e la base possibile di una cultura.

Diciamo rapidamente, per riassumere, che il geo- della geofilosofia è psico-socialmente relativo, quello della geopoetica è cosmico-planetario.

 

5 Geopoetica e geocritica

Di tanto in tanto sorge, nella storia della letteratura, un bisogno e un tentativo di ricreare la critica letteraria e di fornirle una nuova base e un nuovo impulso. Sebbene di “critiche” ve ne siano sempre state, la critica non esiste, in quanto tale, prima del XIX secolo. Un elenco tipologico potrebbe contenere diverse metodologie: idealista, assolutista, determinista, positivista, impressionista, psicanalitica, marxista, ecc. Quando ero studente a Glasgow, mi sono procurato due libri che cercavano di fare il punto sulla questione: Critical Approaches to Literature di David Daiches (1956) e The Anatomy of Criticism, di Northrop Frye (1957). Daiches divide il suo studio in tre sezioni: “The Philosophical Enquiry” (da Platone e Aristotele a T. S. Eliot), “Practical Criticism” (la critica come professione, una tipologia dei metodi) e “Literary Criticism and Related Disciplines” (Freud, Jung, Marx). Frye, dal canto suo, divide il proprio studio in quattro sezioni: “Historical Criticism – Theory of Modes”, “Etical Criticism – Theory of Symbols”, “Archetypal Criticism – Theory of Myths”, “Rhetorical Criticism – Theory of Genres”. Non posso dire che questa lettura mi abbia granché stimolato il pensiero, ma almeno mi ha rivelato le strutture con le quali avrei avuto a che fare. Galleggiano forse nella mia memoria i nomi di Sainte-Beuve (secondo il quale l’opera di Baudelaire era un chiosco bizzarro delle parti della Kamchatka), di Hippolyte Taine (“la razza, l’ambiente, il momento”), di Roland Barthes (“il grado zero della scrittura”). Se cito solo esempi francesi è senz’altro perché in Francia il pensiero critico si è sviluppato più che altrove. In Inghilterra, si può fare il nome di Coleridge, ma nell’ambiente inglese convenzionale è considerato un’anomalia mostruosa, un poeta che, sotto l’influenza tedesca (Kant, Schelling), ha sprecato il proprio tempo pensando. Attualmente, sia in Inghilterra che in Francia, non c’è più critica sulla  piazza; non resta, grande eccezione, che il chiacchiericcio.

A priori, quindi, ogni tentativo di ridare una base alla critica letteraria, di restituirle un po’ di energia intellettuale, sarebbe meritevole di attirare la mia attenzione, fors’anche di destare il mio interesse.

Trascuriamo le stupidaggini che possono essere state dette sulla geopoetica nel convegno proto-geocritico al quale pensate, discorsi rivelatori di un pensiero-riflesso e dell’assenza totale di documentazione seria.

Da parte mia, allo scopo di informarmi, scrupolosamente, sulla geocritica, mi sono costretto a leggere da cima a fondo (lettura invero alquanto tediosa, essendo il testo pedagogicamente ultra-ripetitivo) il libro di Bertrand Westphal La Geocritica – realtà, finzione, spazio.

Sul piano della forma, il libro di Westphal esita fra un concettualismo universitario ortodosso e il desiderio di operare all’interno di un’eterogeneità definita “postmoderna”. Si compone di cinque capitoli; ai primi tre – “Spazio-temporalità”, “Trasgressività”, “Referenzialità” – è assegnato il ruolo di presentare il contesto prima di arrivare al quarto, “Elementi di geocritica”, cui fa seguito un ultimo capitolo, “Leggibilità”, che tratta dell’applicabilità del concetto alla realtà sociale. Il formalista represso si affretta a dire che l’eterogeneità da lui praticata non è segno di una fragilità strutturale, né un ripiego, ma proviene dalla volontà di trarre profitto da “ogni dinamica” che attraversi lo spazio contemporaneo. Si concede persino un riferimento “forse più poetico”. Si riferisce a Leon Battista Alberti (XV secolo), che, negli Intercenales, definisce naviculae, navicelle, i piccoli Stati da cui all’epoca era formata l’Italia. È quindi in uno spazio “nautico” che si è invitati a fare ingresso.

Se l’approccio a questo spazio è definito “geocentrato”, lo è in rapporto a tutta la letteratura pre-postmoderna, a tutta la critica letteraria pre-geocriticista, la quale sì sarebbe “egocentrata”: lo scrittore come “oggetto principale di tutte le attenzioni”. Dal “punto di vista individuale”, la geocritica intende sostituire un punto di vista geo-sociale. Ogni autore  viene collocato “in una rete ricondotta a un punto di riferimento ben preciso”.

Esempio: Il Quartetto di Alessandria. Invece di focalizzare l’attenzione su Lawrence Durrell - “autore britannico che scrive racconti la cui azione si svolge in un luogo denominato Alessandria” – si passerà, in geocritica, a studiare Alessandria. E accanto a Durrell, essendo Alessandria il loro “denominatore comune”, verranno tirati in ballo il viaggiatore francese Volney, il poeta greco Kavafis, il romanziere greco Stratis Tsirkas, lo scrittore copto Edward al-Kharrat. “In una parola, ci si sposterà dallo scrittore al luogo, e non più dal luogo allo scrittore, lungo una cronologia complessa e secondo punti di vista differenti”. Così, non solo “lo spazio viene sottratto allo sguardo isolato”, ma si trasforma “in piano focale, in centro prospettico”, cosa che lo “rende ancora più umano”.

Successivamente, ad Alessandria si aggiungeranno Parigi, Londra, Lisbona, Berlino, Budapest… E quindi alle città si aggiungeranno le regioni: la Sicilia, la Galizia, la Bucovina… Alle regioni faranno seguito i continenti. Ai continenti, spazi generici: isole, penisole, arcipelaghi, montagne, deserti, fiumi, mari, laghi… E poi, ci sono i luoghi immaginari: la Ruritania di un romanziere inglese, la Poldevia di non ricordo chi. E nel prossimo futuro, si andrà verso gli spazi intersiderali: “Una geocritica di Marte e della Luna è plausibile”, ma perché ciò avvenga, precisa Westphal con un umorismo di cui si apprezzerà la finezza, bisognerà attendere “i primi scritti su carta verde marziana” o “i primi film girati a bordo di dischi volanti”. Nel frattempo, si dovrà chiaramente aggiungere ai testi letterari il cinema (impossibile presentare Lisbona senza i film di Wim Wenders o di Alain Tanner…) - e persino le immagini sintetiche…

Non siamo più nel comparativismo, nella letteratura comparata (che ai miei occhi, pur avendo allargato l’orizzonte di alcune menti, non è mai stata una disciplina fondamentale): siamo nel turismo.

Un primo giro d’orizzonte sulla geocritica potrebbe effettivamente portare alla conclusione che quel che ci si può aspettare da essa è non solo una serie intera di spesse antologie senza ontologia, se mi è lecito dirlo, ma anche un’immensa Mediateca universale del turismo culturale. Tanto più che nelle ultimissime pagine del suo libro, parlando della “applicabilità” della letteratura, del suo contatto col “reale”, della “interfaccia fra il testo e il mondo”, dell’incontro tra “narratività finzionale” e “narratività performativa”, è proprio il campo del turismo che Westphal cita come esempio: “il turismo, industria certo, ma industria del sogno nutrito di finzione”.

Ho preferito concedergli un’altra possibilità, cercando di vedere quanto questa impresa – d’altronde, allo stesso tempo, pomposa e derisoria, pretenziosa e triviale - potesse comunque veicolare di interessante. Al fine di praticare questa generosità intellettuale, il punto migliore è, secondo me, il capitolo II del libro, quello sulla Trasgressività.

“Parlare degli spazi di trasgressione non è una faccenda semplice”, scrive Westphal. Con questa affermazione generale sono, evidentemente, d’accordo. Ma vediamo da vicino come procede Westphal.

Inizia col citare François Hartog in Lo specchio di Erodoto, che ho dovuto leggere, con molto interesse, all’inizio degli anni Ottanta: “Trasgredire significa uscire, per hybris, dal proprio spazio ed entrare in uno spazio estraneo”. È anche vivere, vedere e capire “ciò che si dispiega oltre la soglia, intesa sia come limes, ‘linea d’arresto’, che come limen, frontiera porosa destinata ad essere varcata”. E Hartog amplia allora il senso del termine: “Questa trasgressione spaziale è anche trasgressione di uno spazio divino e aggressione nei confronti degli dèi”. A partire da ciò, Westphal offre la propria interpretazione: “L’intervallo fra azione e trasgressione è decisamente stretto. Tale intervallo porta un nome, in Deleuze e Guattari: quello di epistrato, margine di devianza tollerata”. Evoca allora l’estendersi di una “spiaggia di intimità oltre la recinzione”. Il mio riferimento personale sarebbe meno l’epistrato di Deleuze e Guattari che non l’epistrategia di Tebaide, situata fra Panopoli e la prima cateratta, denominata così da Strabone durante il suo viaggio in Egitto e in Etiopia. E perché parlare di una “spiaggia di intimità”? Io stesso ho parlato di una spiaggia escatologica, rifacendomi al greco eschatia (“lontano dal centro”, “in capo al mondo”, “posizione estrema”), che si può trovare in Omero, Esiodo o Pindaro.

Si constata dunque un interesse comune per un medesimo spazio, quello dalla “trasgressività”, ma già in ciò si nota una differenza di ottica e di poetica. E le differenze si vanno sempre più accentuando.

L’ottica di Westphal, della geocritica, è anzitutto sociale, sociologica.

Alla “frontiera” della geocritica egli colloca dunque tutto ciò che costituisce un sidestep (come molti intellettuali e semi-intellettuali francesi contemporanei, è propenso alle formule anglosassoni), un “passo di lato”, rispetto a uno spazio autoritario egemonico o alla monologia di un codice. Ne risulta un ammasso eterogeneo in cui le nicchie minoritarie e comunitarie stanno fianco a fianco coi piccoli “eterotipi” intimi di Foucault, in cui i discorsi sulle posture corporali e sessuali (gender studies) si accostano ai discorsi etnici, etno-culturali, post-coloniali (“declinazioni della differenza”); il tutto riassunto nell’espressione hold-all “terzo spazio”, ereditata da Homi Bhabha (third space, stato tra altri due) e di Edward Soja (in cui il third space ancora fluido di Bhabha diviene un Thirdspace, un luogo di “fusione integrale”).

Non è senza sollievo, e con la speranza di trovare qualcos’altro, che si lasciano da parte queste agglomerazioni di seconda classe, questo proliferare di esempi e di sottoesempi – dove l’arte è rappresentata da un romanzo il cui testo ruota attorno a un O (sesso femminile, ciclo mestruale, rivoluzione cosmica…) - e si entra nello spazio di alcune menti di prim’ordine, che attraversano anch’esse, di sfuggita, queste pagine, e che mi sono particolarmente care: Ovidio, Brandano, Dante. 

Cominciamo da Dante, il cui limbo infernale è, come dice bene Westphal, “un luogo popolato dai grandi trasgressori della mente”. Ma invece di, per esempio, analizzare la natura della trasgressione di queste menti, invece di analizzare la trasgressività di Dante stesso, come fa Mandelstam in Conversazioni su Dante (Dante visto non come “poeta”, nel senso banale della parola, non come “produttore di immagini”, bensì come “stratega dei mutamenti”), Westphal, fedele al suo proposito di non occuparsi di individui o di autori, ma di procedere serialmente, scivola subito verso Venerdì o il limbo del Pacifico, da cui ricava  il trito tema sociologico dell’incontro fra l’Uno e l’Altro, aggiungendovi un piccolo tocco post-coloniale: “che si alternano e si ibridano”. Continuando la serie, avrebbe potuto andare verso L’ombelico dei limbi di Antonin Artaud, contraddistinto da ben altra radicalità. Ma rimaniamo sull’isola di Robinson Crusoe, Juan Fernandez, luogo d’esilio, fuori dalla letteratura, del marinaio scozzese Alexander Selkirk. Deleuze e Guattari vi fanno riferimento in Cos’è la filosofia?, vedendo nell’incontro fra il solitario e l’isola “l’espressione di un mondo possibile in un campo percettivo”. Ecco una frase interessante, che va nella stessa direzione del mio percorso di lavoro ed evoca il campo della geopoetica. Ma ecco cosa ne fa Westphal. Tutto è tradotto, ridotto in termini di banale “terzo spazio”, che “si afferma man mano che il territorio abbandona il proprio potenziale temibile, la propria forza medusante”. Il rapporto fra forza e forma, e l’emergere di un mondo nel senso forte e pieno della parola, vanno completamente perduti.

Dopo Dante, un’altra figura evocata da Westphal, e che mi è vicina, è quella di San Brendano (che preferisco chiamare Brandano – entrambe le ortografie coesistono), il monaco navigatore irlandese del VI secolo. Westphal inizia esibendo un’erudizione da aula scolastica sulle mappe TO e sul fantastico nel Medioevo: “I mari e gli oceani, che circondavano terre labili, erano popolati da mostri marini”. E anziché mostrare ciò che vi era di oltraggiosamente trasgressivo nel pelagianismo rispetto al cristianesimo insediato a Roma, si accontenta di tratteggiare il viaggio del nostro corridore di spazi sulla base dei precetti del canone religioso e dei dettagli del calendario liturgico. La mia poesia “L’ultimo viaggio di Brandano”, che tiene conto di tutte queste informazioni culturali e vi si riferisce qua e là, spinge le cose, a partire dallo spazio fisico, assai più lontano, e apre la mente invece di rinchiuderla, ancora una volta, in uno schema socioculturale.

Con la sua lettura di Ovidio, si trova un piccolo indizio di qualcos’altro. Dopo alcune informazioni primarie sull’esilio di Ovidio a Tomes - “Relegato a Tomes, sulla riva del ponto Eusino, il nostro Mar Nero (…); Tomes era per lui e i Romani l’ultimo dei mondi, l’estremo, ultima tellus” - Westphal cerca di entrare nello spazio, nel territorio, nel luogo: “Quando osservava il mondo dei Daci e dei Sarmati, ‘barbari’ dei quali aveva imparato la lingua, e forse la riva opposta del Danubio, Ovidio posava lo sguardo sul nulla scitico. Poroso, il limen era orlo aperto su un ‘nuovo’ incognito, ma che apre anziché chiudere. Forse Ovidio aveva trasformato il limes dell’impero in un limen. Forse: perché non se ne sa nulla”. Non se ne sa nulla, è vero, ma la mia poesia Il Testamento di Ovidio (ho parecchi studi ovidiani alle spalle) avanza trasgressivamente in questo “incognito”, in questo “nulla scitico”, aprendo, ancora una volta, la mente, aprendo possibili prospettive di esistenza.

Per riassumere, vedendo le cose da lontano, la geocritica, che pretendeva di collocarsi “all’incrocio dei potenziali creativi”, non è altro, in realtà, che un ripostiglio intermedio.

 

                                                                                                          Kenneth WHITE

            Estratti da Panorama geopoetico, colloqui di Kenneth White con Régis Poulet,
Edizioni della Revue des Ressources, collezione “Carnets de la Grande ERRance”, 2014.

 

Traduzione di Marco Grassano.