1.

 

Abito una vecchia casa in pietra – granito e scisto – sulla costa settentrionale della penisola armoricana. La casa consiste in tre costruzioni. In quella che un tempo era stata, in basso, la stalla, e in alto, il fienile, è installata da dieci anni quella che mi piace chiamare l’officina atlantica, o l’officina geopoetica. È lì che sviluppo le mie meditazioni, è lì che elaboro i miei metodi.

 

Ho sentito il bisogno di piantare le tende in un luogo, e di parlare di come lo si abita, prima di parlare di un’opera.

 

In un saggio intitolato “L’ecologia degli atti”, Abraham Moles parla della necessità di una nuova antropologia dello spazio.

 

 

Proponendo qualche elemento, distingue:

a)      una zona di sicurezza;

b)     una zona di distrazione;

c)      una zona di meditazione;

e si chiede quale sia il rapporto ottimale tra le tre.

 

Non penso che le proposte di Moles vadano molto lontano, ma la nozione di un’antropologia dello spazio va tenuta in considerazione.

 

Per riassumere, ci sarebbero il porto (che può anche diventare la prigione) delle abitudini, il mondo fluttuante (in cui ci si perde) e la casa delle maree, un’abitazione nel flusso.

 

Heinz von Foester, in “Note per una epistemologia degli oggetti vivi”, parla del “contesto pieno”. L’ambiente naturale, secondo lui, è percepito come residenza degli oggetti stazionari, mobili o mutevoli, e la domanda sorge: è possibile un’esperienza primaria, al di fuori del sistema di rappresentazione convenzionale, delle abitudini, delle fissazioni psichiche?

 

 

2.

 

Sentendomi parlare di un posto in cui vivere, di distanza, di solitudine, di silenzio, un giornalista mi ha chiesto recentemente se fossi misantropo. Mi sono, chiaramente, affrettato a rispondere negando – ma precisando tuttavia che un’antropologia critica è alla base della mia filosofia di vita e della mia concezione dell’arte. Non ci siamo soffermati sulla domanda. Vorrei farlo un po’ qui, allargando il proposito: la geopoetica è forse inumana? La geopoetica non sarebbe piuttosto un umanesimo?

 

Tutti, qui, ricorderanno l’ultimo quadro di Bruegel, che si intitola proprio Il misantropo. Vi si vede un vecchio e, accanto a lui, preso in una sfera sormontata da una croce, un nano deforme che gli sottrae la borsa. Non mi soffermo sull’interpretazione del simbolismo, che mi pare piuttosto evidente. Vi si può vedere la piccolezza di spirito che riempie il mondo intero, sforzandosi di ridurre la potenza e l’influenza di tutto ciò che la trasgredisce, la trascende. A questa immagine aggiungiamo quella della Torre di Babele, che rappresenta la confusione logica e concettuale in cui il mondo si dibatte. E poi c’è La caduta di Icaro. Mentre contadini, pastori e marinai (geopoetici…) svolgono i loro lavori sulla terra e sul mare, e un sole giallo brilla sulle montagne, Icaro, faustiano pazzo, dalle ambizioni folli e smisurate, fa un piccolo pluf nell’acqua, in lontananza. Ma sono sicuramente i paesaggi di Bruegel a essermi più cari: La giornata d’inverno, scura, con la sua terra rosso-bruna, gli alberi, le montagne. Altrove, sarà un cielo serenissimo nel quale vola un solo corvo, o il caos blu-giallo-bruno di una tempesta. Mi piace pensare, in generale, a tutti i lavori in corso nell’Officina dei Quatto Venti di Anvers, che accosto volentieri a quelli di Hokusai nella sua Officina del Nord.

 

Ecco uomini che vivono una vita densa, che si accordano alla sinfonia degli elementi, che abbinano vigore e visione, umore e profondità, truculenza e trascendentalismo, e che non hanno tempo da perdere col troppo umano.

 

 

3.

 

Per parlare del nostro contesto attuale, chi non sente il bisogno di uno spazio più fresco, al di fuori dell’ambiente troppo umano? In Cool Memories, Jean Baudrillard scrive questo: “Solo l’inumanità delle cose mi ha emozionato, eppure  non sono stato capace di trasporla nella mia stessa vita”. Simili confessioni sono rare. Ancor più rari sono i lavori e le opere che fanno uscire dal troppo umano, che accrescono la sensazione di vita accorpando all’umano il non umano.

 

Ancora recentissimamente, in un luogo che per me riunisce ricordi di Rousseau, di Buffon e di Bachelard (si tratta, sì, di Digione), un amico filosofo, un filosofo amico, mi ha detto, durante un banchetto platonico, che ero un iconoclasta. La cosa mi ha interessato. Tanto che ho continuato a chiedermi in che senso e in quale misura fossi iconoclasta, derivando poi verso la domanda: la geopoetica è iconoclasta?

 

A prima vista, almeno per quanto mi concerne, la cosa sembra difficile da accettare, data la quantità di immagini (icone) che si trovano nella mia officina di lavoro. I muri ne sono coperti, il pavimento ne è pieno. Ne evocherò solo qualche categoria, e qualche esempio per ogni categoria.

 

Ciò che colpisce da subito sono senza dubbio le pietre (è accettabile che le pietre possano svolgere una funzione iconologica?). Ve ne sono dovunque, posate direttamente sul pavimento, sugli scaffali. A volte, mi hanno attirato per la loro forma, semplicemente. Altre volte hanno delle incrostazioni  cristalline, o sono coperte di concrezioni marine, o contengono fossili. Varie sono posate su cumuli di manoscritti, a seconda della taglia o del colore, in corrispondenza con l’importanza del cumulo o del colore della cartellina che contiene i fogli. Altre giustapposizioni di questo tipo mi piacciono: un grosso frammento di pietra grigia incrostata di un occhio bianco (cerchio bianco, pupilla nera) sta al fianco di The Dawn in Britain di Charles Doughty… All’inizio, non annotavo la provenienza delle pietre: il solo pensare che venissero da diverse regioni della Terra mi bastava. Ma da un po’ di tempo, mi appunto i posti in cui le ho trovate: Causse Méjan, Aubeterre, Anse Macabou, La Caravelle (Martinica), Tobago Keys, Skagen (Baltico), Montserrat, Hokkaido…

 

Quando un amico giapponese, pittore, è passato nell’officina, gli ho chiesto di vergare, in ideogrammi, su tre pietre che avevo già messo da parte, tre koan (frasi su cui meditare): “Camminare solo sotto il cielo rosso”, “Ad ogni passo, il vento puro”, “È proprio così!”. All’inizio, avevo pensato di montare queste pietre, installandole, per esempio, in grandi blocchi di quercia. Ma alla fine le ho lasciate fuori. Amo contemplarle sotto la pioggia o nel sole. Si sono patinate. Una di esse, quella grigia, che porta ideogrammi rossi, si copre lentamente di un fine muschio verde.

 

Di fianco alle pietre, le ossa, le ossature: omoplati di caribù, crani d’uccelli. E poi fotografie di oggetti provenienti da siti paleolitici: le teste di cavallo e i legni con le renne, scolpiti e incisi, della grotta di Isturiz, per esempio. E poi ci sono i disegni sciamanici, nei quali la persona dello sciamano è ridotta al suo scheletro da una sorta di riduzionismo ontologico radicale.

 

Sui muri, sono appese quantità di immagini (incisioni e disegni) soprattutto di uccelli, come se la riduzione fosse il preludio a prendere il volo: sula, gufo, airone cinerino, zigolo delle nevi – e il nuovo albatro scoperto recentemente sull’isola di Amsterdam, nell’Oceano Indiano, a metà strada fra l’Australia e l’Africa meridionale, da due ricercatori dell’Istituto delle scienze dell’evoluzione, di Montpellier: Diomedea amsterdamensis.

 

Penso poi alle carte: quella delle aree ecologiche della fine della glaciazione, quella della zona delle steppe nell’Eurasia; quella del bordo atlantico della falda glaciale scozzese; quella del mondo secondo Strabone; quella del mondo secondo Erodoto; quella del mondo secondo Dionigi il Periegeta; quella del periplo di Pitea; quella delle grandi migrazioni indoeuropee; quella del dominio cimmero nell’ottavo secolo prima della nostra era; quella dell’espansione degli Sciti; quella delle relazioni precolombiane attraverso il Pacifico; quella del periplo di Lapérouse; quella delle Antille e del Golfo del Messico con i relativi punti di sbarco…

 

C’è quindi, da me, una proliferazione di immagini…

 

Questa collezione di immagini svolge una funzione diffusa e multipla. Non si tratta di arte propriamente detta, ma forse di proto-arte, di proto-geopoetica. Una certa immagine od oggetto può servirmi da supporto per la meditazione. La presenza preponderante di pietre e di ossa mi suscita quella che si potrebbe chiamare una sensazione paleolitica. Il tutto costituisce forse una coerenza inedita: un mondo protoplasmatico. Mi capita di provare in questa officina una grande eccitazione mentale. Ma ogni poeta, ogni artista sa che la questione non è come raggiungere l’eccitazione, ma come fare di questa eccitazione un’esattezza. Ecco l’esigenza.

 

Ritornerò su questa questione dell’iconoclastia.

 

Ma, prima, propongo di fare una digressione nel luogo in cui la controversia iconofila-iconoclasta (“a favore o contro l’immagine”) ha imperversato. Parlo, evidentemente, di Bisanzio.

 

 

4.

 

Chiunque abbia visitato assiduamente le accademie di Roma e di Firenze avverte, a più o meno lungo termine, una stanchezza di fronte all’eccesso di materiale umano: tutte quelle statue, tutti quei ritratti... È con una sensazione di sollievo che si scopre, a Ravenna, all’interno di un piccolo edificio in mattoni rossi, un mosaico di luce in cui troneggia il Pantocratore, gli occhi pieni di eternità.

 

È, di già, Bisanzio.

 

Situata tra l’Europa e l’Asia, in una regione poco popolata e più primitiva che non l’Occidente romano, posta di spalle al Mediterraneo e di fronte al Mar Nero e a tutto l’entroterra del Nord Est, Bisanzio voleva essere una città esemplare, animata da una vita intellettuale e artistica intensa. Come si può, una volta intrapresi degli studia byzantina, non sentirsi attratti da figure quali il monaco Metodio, il viaggiatore Cosma Indicopleuste, Fozio, proprietario di una biblioteca straordinaria, uno scrittore quale Marino Faliero, o una donna quale Sofia Paleologa, che sposò (quale spreco!) Ivan il Moscovita... Città intellettuale, dicevo, e città artistica: penso a quei codici “porpora” (scritti in argento su carta velina porpora) prodotti negli scriptoria, a tutti i lavori in mosaico e in oreficeria. L’accento è posto sul sovrumano e sul trascendentale. Lo schema centrale del pensiero è: Pantocratore, Paradiso, Terra. Ma questa terra, collocata così in basso nella gerarchia, è tuttavia meravigliosamente presente. Basta guardare il fiume Giordano in mosaico blu, o quelle pavimentazioni brillanti, che sono carte della terra e dell’oceano, per convincersene. Si adora la complessità, e si spinge lontano l’astrazione. Quelli che la spingono più lontano sono gli iconoclasti. Hanno un’idea così elevata dell’Astratto da trovare inammissibile rappresentarlo con immagini di santi, con una qualsiasi iconologia umana, antropomorfa, fosse anche quella di Cristo in persona. Questi iconoclasti dell’ottavo secolo non fanno, a mio avviso, che accentuare un aspetto già presente nella cultura bizantina. In quella cultura, basata sulla Rivelazione, si lasciava, per la Rivelazione, un trono vuoto.

 

Il fine degli iconoclasti bizantini era raggiungere una perfetta trascendenza: aldilà dell’intervento, dell’intermediario, di una iconologia troppo umana. Si potrebbe forse dire che lo scopo dell’“iconoclasta” geopoetico è invece di giungere a una perfetta immanenza.

 

Ma questa è solo una prima formula. Proseguiamo le nostre meditazioni, passo a passo, di questione in questione, di spazio in spazio.

 

 

5.

 

In una società, uno stato di cultura, il nostro, che, pur consacrandosi a una proliferazione galoppante di immagini (in cui si può vedere la rivincita, impotente, dell’immaginazione troppo a lungo vessata dal pensiero razionale), non conosce “la potenza poetica del simbolo” (Gilbert Durand), un certo numero di pensatori della tarda modernità predicano il ritorno all’immaginazione simbolica e alla riabilitazione del simbolo sacro, epifanico, trascendentale. Per loro, il male è iniziato con Aristotele (il pensiero concettuale), è passato dagli iconoclasti (“una simile iconoclastia non si è sviluppata senza gravi ripercussioni sull’immagine artistica dipinta o scolpita” - Gilbert Durand) e poi da Cartesio e Spinoza. Lungo tutto questo processo, si assisterebbe a una degradazione, o persino a una estinzione, della facoltà simbolico-immaginativa, dalle allegorie decorative del Rinascimento fino alla confusione chiassosa della “civiltà dell’immagine” contemporanea. Si può condividere il rifiuto di questi pensatori, si possono accettare, in parte, le loro analisi, pur restando per nulla persuasi della necessità, o della possibilità, del ritorno che essi preconizzano. Personalmente, di fronte a tutto ciò che è simbolismo sacro, a tutto ciò che è teologia o ontologia trascendentale, di fronte a tutto ciò che vuol essere arte spiritualista, simbolista, sono di uno scetticismo himalaiano.

 

Non è soltanto perché ho percorso le vie dell’Atene del Nord con Hume, perché ho conversato con Montaigne nella sua biblioteca, perché ho incontrato Pirrone nei Pirenei e deambulato con Sesto Empirico nei viali di Lussemburgo, ma anche perché, in arte, mi ha sempre attirato qualcos’altro. È qualcosa che è là, presente, nella cava di pietra di Cézanne o nel ciliegio di Van Gogh. È qualcosa che si trova allo stato diffuso, latente, nella mia officina geopoetica. C’è in tutto questo un qualcosa che non è né simbolo sacro né esibizione di immagini triviali.

 

Il viaggio intellettuale e artistico, culturale, come lo vedo io, è quello che porta dal sacro al Vuoto, dal mondo assoluto al mondo aperto, passando dal mondo fluttuante.

 

Questa è soltanto un’altra formula. Ma rifare conoscenza col mondo, fare una ri-cognizione del mondo, di luogo in luogo, e saggiare qualche formula, è essere già sulla via di un reinizio.

 

Cerchiamo ora di spingere ancora più in là le nostre indagini di prima geopoetica. Partendo, stavolta, dallo stato di degrado che conosciamo.

 

 

6.

 

Da un po’ - dal XVIII secolo, di fatto - tutta una tendenza del pensiero è consistita nel ridurre la metafisica alla morale. Penso a Hume, a Kant, a Voltaire… Col tempo, questa morale è diventata del tutto sociale. Tutto è dottrina sociale, documento sociale, discorso sociale, chiacchiericcio sociale… E questo discorso suona sempre più vuoto: da cui, in una porzione significativa della popolazione, un autismo, un’afasia, un infantilismo che non trovano via d’uscita, o scappatoia, se non nella violenza. Di fronte a questo stato della società, si capisce che alcuni vogliano risalire alla morale, altri fino alla metafisica o alla religione.

 

Penso, in effetti, che dobbiamo risalire, almeno in un primo tempo, fino alla metafisica.

 

Utilizzando nel titolo del mio intervento - punto di partenza di questo saggio - le parole “meditazioni e metodi”, evoco evidentemente la figura di René Descartes, Cartesio, che, con Aristotele è l’anatema dei simbolisti del Sacro e dei figurativi dell’Assoluto, poiché riduce il simbolo al segno e vuole disfarsi di un’immaginazione ingombrante. In lui, nel “dubbio metodico”, il mio scetticismo trova un suo riferimento. Certo, non vale lo stesso per mio modo di sentire il mondo. Se, nei Princìpi, Cartesio affronta la questione della formazione del mondo, si affretta a spiegarla, non si limita alle forme, ancor meno alla molteplicità delle cose, e trova senza dubbio troppo in fretta la propria “idea chiara e distinta”, comprimendone tutta l’ampiezza nella “cogitazione”. Ma mi piace il suo desiderio di chiarezza, mi piace la sua ricerca di una “verità incorruttibile”, e ho la tendenza a inventarmi un Cartesio più sensibile alla molteplicità delle cose e alle forme, un René Descartes “ri-nato dalle carte”, un Cartesio che, nella propria ricerca di una verità inattaccabile, si accontenterebbe, per un po’ di tempo, come il saggio nel Paradiso ritrovato di Milton, di raccogliere ciottoli sulla spiaggia. Mentre leggo Spinoza, lo vedo, nella sua stanza di lavoro di Rhinnsburg, levigare vetri – sempre questo desiderio di chiarezza e di trasparenza. Risalgo ad Aristotele, alla fisica peripatetica. Mi piace il suo gusto per le indagini (historiai), finalizzate a tutte le Ricerche (dell’assoluto, del Graal, di Dio, ecc.). Ma a fianco di questi pensatori razionali, ne leggo altri più mistici, come Eriugena – mi piace  il plurale del suo sunt lumina (vi sono luci) - oppure Ibn Arabi, detto Ibn Aflatun (figlio di Platone), per i suoi itinerari epifanici. È da questo campo complesso che è uscita la nozione di geopoetica.

 

Mi pare che, spingendo la metafisica fino alla fine, fino ai suoi limiti, quel che si trova, al termine del cammino, è il vuoto e il fenomeno. E questa conclusione, che è di fatto un’apertura, può andare molto più lontano che non la fenomenologia. Merleau Ponty, per esempio, seguendo il metodo fenomenologico, scopre la prosa del mondo. Ma non la sente; questa prosa del mondo, in Merleau Ponty, non la si vede; i fenomenologi (Husserl, il primo, compreso), non arrivano a farla suonare.

 

Parlando di “suonare”, penso ai suoni, ai rumori che odo attorno alla mia officina: rumore del vento, gridi di uccelli, sussurro delle foglie… Penso anche a un’altra cosa. Mi succede, dopo una lunga seduta di lavoro, di sedermi sui gradini della mia officina per bere del te. Mi piace il suono della mia teiera di ghisa quando la poso sul granito degli scalini. Ciò mi fa pensare a Gauguin, che dichiarava che ciò che voleva rendere in pittura era l’equivalente del suono che producevano i suoi zoccoli sul granito. E mi evoca anche il suzu (piccolo strumento di bambù posto in un ruscello di fianco a una roccia e che emette a intervalli regolari un clac molto gradevole) che ho visto un giorno nel giardino di un poeta eremita a Kyoto.

 

È un suono simile, una musica simile, che mi piace udire nelle opere d’arte. È il suono di base della geopoetica. Può essere all’origine di tutto uno sviluppo, ma è necessario che sia presente.

 

 

7.

 

Ammetto che si possa riparlare qui di una certa iconoclastia, di un certo rifiuto: se non dell’immaginazione, almeno di un certo eccesso di immaginario.

 

Ho, infatti, molta reticenza di fronte al narcisismo narcotico dell’immaginario, al rinchiudersi soggettivo nell’immaginario, che, a mio parere, non è che il rovescio del positivismo – una compensazione. Sento una grande distanza rispetto alle fissazioni dell’immaginario: preferisco gli archivi agli archetipi. Non parlo soltanto del lirismo facile e convenzionale, quello che qualcuno chiama “la poesia” (se ne trova, di certo, l’equivalente nelle arti plastiche). Questi elementi, che respingo, li si trova anche nei migliori. In Bachelard, per esempio. La poeticità che preferisce mi sembra un po’ di comodo. Chi non avverte in lui che si accontenta, il più delle volte, di sgranare immagini estetiche, così come uno spirito religioso conta i chicchi del proprio rosario? In Saint John Perse, per esempio, chi non avverte l’inflazione psichica e metaforica di un testo come questo (scritto per Braque): “L’uccello, tra tutti i nostri consanguinei il più bramoso di vivere, conduce ai confini del giorno un singolare destino. Migratore, e posseduto di inflazione solare, viaggia di notte, essendo i giorni troppo corti per la sua attività. In tempi di luna grigia, colore del vischio di Gallia, popola col suo spettro la profezia delle notti. E il suo grido nella notte è il grido dell’alba stessa: grido di guerra santa all’arma bianca”. E se posso essere attratto dal churinga della tradizione australiana, per esempio, so che mi è impossibile pensare in termini di genealogia sacra, e di vedervi il corpo di un antenato. Amo il grezzo, il bruto, l’ex abrupto, svincolato dalle connotazioni e dalle convenzioni, liberato da un troppo-pieno psichico.

 

Ho detto che mi piacevano gli archivi e le indagini peripatetiche. Mi piacciono anche le “investigazioni” di Erodoto, che Quintiliano descrive come dulcis et candidus et fusus (piacevole, lucido e diffuso). Il che ci porta a parlare più precisamente di linguaggio, di stile, di espressione.

 

 

8.

 

C’è sempre nell’uomo, o almeno in certi pensatori, il desiderio di un “linguaggio naturale”. È soprattutto il caso di Jacob Boehme. Boehme pensa e scrive in un contesto cristiano; è quindi la Parola di Dio che sente e vede nelle cose – ma si può estrapolare. Per Boehme, il verbo fiat è ancora attivo, e questo verbo “forma e unisce”. Non vi è, fondamentalmente, divisione fra la parola e la cosa. Se il linguaggio “adamitico”, quello del “primo uomo”, lo si è perso di vista, si può ritrovarlo: è sufficiente studiare in profondità la lingua, e leggere la “firma” delle cose. Sarà questo il lavoro dei pansophes, così come lo si trova non solo in Boehme, ma anche, per esempio, in Khunrath de Bâle, nel De Signatura Rerum. Si pensa anche, certamente, ai cabalisti, a certi rosacrociani, e si può risalire la serie fino a Platone di Alessandria, nel suo Officium mundi, e a Eusebio di Cesarea, nella Praeparatio evangelica. Non seguirò i tentativi di Boehme per convincerci che la parola Wasser corrisponde perfettamente all’elemento liquido che altre lingue chiamano aqua o eau, né altre aberrazioni della pansofia. Ma la nozione di un liber naturalis, di un linguaggo che sarebbe l’elemento formativo dell’armonia del mondo, mi interessa.

 

Se il pensiero umano è incontestabilmente segnato da un’ingenuità naturista, esso veicola pure,  cosa ben più nefasta e restrittiva, una patologia anti-naturista. È essa a predominare nella nostra cultura, da secoli. È essa ad aver creato le nostre abitudini, e una gran parte della nostra teoria. Ed è essa ad aver suscitato reazioni spesso primarie e sempliciste. Ma sarebbe possibile infrangere le abitudini, questi stampi, questi modelli, e trovare un linguaggio allo steso tempo più fresco e più completo?  È quel che sembra suggerire Jean Grenier, quando dice (Riflessioni su qualche scrittore) - in un modo troppo metaforico, evidentemente - che se riuscissimo a infrangere le abitudini “un cielo si aprirebbe in cui potremmo volare”. Certo, infrangere le abitudini non è facile. “Bisogna iniziare” dice Grenier “da un distacco fatto con violenza”. Ma mi sembra che, ai giorni nostri, sia la scienza l’ausilio in questa bisogna.

 

 

9.

 

Nella “neo-geografia” di François Dagognet (Epistemologia dello spazio concreto), si tratta, a partire da un nuovo sguardo sulle scienze della Terra, di un “testo senza autore”, contraddistinto da una “violenza originale”. Ma, nel contesto di quella meditazione libera, è soprattutto sulle ricerche di un biofisico che vorrei soffermarmi, e sull’idea di un poeta.

 

In un saggio, “Coscienza e desiderio nei sistemi auto-organizzatori”, Henri Atlan propone di constatare la fine dell’Uomo come “sistema chiuso”, non solo traendone tutte le conseguenze, ma anche avanzando nell’apertura lasciata da questa fine di un’illusione. Si tratterà, d’ora innanzi, di concepire il fatto di esistere come un “processo aperto”. In altre parole, l’Uomo è stato una cattiva abitudine, o piuttosto un’accumulazione di cattive abitudini. Ma le abitudini non fanno l’uomo. E non c’è nessun bisogno, in questa caduta dell’umanesimo, di far ricorso a princìpi metafisici (l’Essere, ecc.) o a chissà quale forza misteriosa. La concezione dell’uomo come “sistema aperto” evita contemporaneamente il meccanicismo e il Mistero. Niente angoscia, e neppure panico. Questa apertura permette una “coscienza di sé come spazio di creazione e di innovazione” e “lascia un posto centrale all’irruzione del radicalmente nuovo, a partire non dal nulla ma dal caos”. E questo “caos” non è un ammasso informe, o una minaccia aggressiva. Vi si può individuare un’auto-organizzazione, ciò che certi biologi (penso a Varela e Maturana) hanno definito una auto-poiesis.

 

E ci si può spingere ancora più lontano. Poiché scoprire forze organizzatrici nella materia stessa, riscontrare una logica dei sistemi auto-organizzatori, non è forse “ritrovare, in modo rinnovato e affinato” (ossia, al di fuori da ogni patetismo e da ogni poeticità sentimentale), “un linguaggio in cui le cose possano parlarci”? Questo “linguaggio delle cose” corrisponde al linguaggio dell’uomo: un linguaggio dell’uomo liberato dalle cattive abitudini e dalla falsa poesia. Come praticare questa depurazione, come stabilire il contatto? Non attraverso la volontà (volontarismo faustiano), né attraverso una proiezione immaginativa (ancor meno fantasista, o poveramente concettuale) sul reale, ma col volere, una “facoltà incosciente di auto-organizzazione sotto l’effetto delle cose circostanti”. Ciò che ne può derivare è una “esistenza unificata”.

 

Mi pare che simili concezioni possano comportare (e li comportano effettivamente, nella geopoetica) certi sviluppi nel campo della poetica. Parlando, per esempio, di Dante, Osip Mandelstam dichiara che Dante è “fattore di strumenti e non produttore di immagini”. E ci insiste, peraltro: “Dante è, per eccellenza, il poeta che rende mobile il senso e disintegra l’immagine”. E ancora: “È  spinto da tutto quel che vogliamo fuorché dall’immaginazione”. Non ci troviamo più nello psichismo, né nel sentimentalismo, ma nella strumentalità e nell’indagine. Il poeta non “si esprime” più, è lo stratega di un tema, il protagonista di una poetica.

 

 

10.

 

Posso forse permettermi, a conclusione, di citare alcuni estratti del mio proprio processo poetico aperto, lasciando ad altri il compito di presentarne l’equivalente plastico.

 

Ecco, per esempio, una poesia da Terra di diamante (“Sulle pareti di una vecchia stanza”), che indica l’uscita dalle abitudini:

 

Sulla prima parete

c’era una stampa di Hokusai

 

sulla seconda

una radiografia del mio torace

 

sulla terza

una lunga citazione di Nietzche

 

sulla quarta

assolutamente nulla -

 

è quella che ho attraversato

prima di arrivare dove sono.

 

Ecco (è un estratto da “Lettera di Harris”, in Mahamudra) il momento della meditazione, della creazione e della dissoluzione dell’immagine, che permette di entrare in uno spazio diverso da quello narcisistico-immaginativo:

 

Il discepolo

trascorre lunghe ore

silenzioso, immobile

 

per raggiungere

lo stato di perfetta calma

oltre ogni pensiero.

 

Liberato finalmente dal Me

entra

nel campo del vuoto.

 

Una rondine di mare

riflessa nell’acqua limpida

infrange la propria immagine

 

nella sala

dalle onde ruggenti.

 

Ecco (estratto da “La casa delle maree”, in Atlantica) il processo in atto:

 

Eccomi dunque uscito

nel territorio

camminando

nel bianco del mattino

camminando, osservando

ascoltando

fiori gialli

che danzano nel vento

un corvo su un ramo

che gracida

il ruscello che riflette il cielo

nelle sue pieghe grigio-blu

spiaggia bianca, alghe

l’andatura altezzosa

degli ostricari

un granchio blu che brancola in una pozza

carapace lucente

verso una scrittura

che punta più in alto

dell’arte di fare versi

con generiche banalità

e geremiadi

arcipelago atlantico

il sentimento di qualcosa

da raccogliere

il pensiero brancola

come un granchio blu in una pozza

danza nel vento

riflette il cielo nella sua corrente

vola alto

lascia tracce sulla sabbia

giace depositato a caso

sui detriti dell’alta marea

 

Ed ecco, per concludere, una presentazione dell’officina geopoetica, che costituisce parte integrante di questa casa delle maree, e del lavoro che vi si svolge:

 

un luogo in cui lavorare

(lavorare

elaborare tutto)

un luogo in cui accogliere

un’estraneità

questa strana attività

(filosofia? poesia?

pratica? teoria?)

di accumulare fatti

verso un poema plurale

oltre il generale.

 
Kenneth WHITE
 
(estratto dagli atti del convegno Geopoetica e arti plastiche)
 
 
                                                                                                         (traduzione di Marco Grassano)